#Lampoon: Snob&Pop

Anna Dello Russo by Anoush Abrar
Anna Dello Russo in GARETH PUGH by Anoush Abrar
Saper comprendere il tempo che scorre: questo significa essere un’icona costante.
Anna Dello Russo è il direttore moda di Vogue JAPAN.
Photographer Anoush Abrar
Creative Direction Carlo Mazzoni
Text Paolo Stella
Anna Dello Russo come pochi altri al mondo, più di chiunque in Italia, aiuta i giovani. È una
frase che si sente spesso, ovunque – aiutare i giovani – ormai sembra banale retorica. Con
Anna, no. Anna ci ha aiutato davvero, con questo nostro Lampoon – e ci ha aiutato nella
maniera più efficace: ascoltandoci, parlandoci, dandoci consigli. «Investire sul cartaceo oggi
ha lo stesso fattore di rischio che investire su un negozio di dischi. È un moderno atto di coraggio».
Anna c’è, con una frase, con una bomba, con un punto fermo e con una risata immensa, Anna c’è.
Anna è con noi, in questi mesi – e ve lo assicuro, non avremmo potuto chiedere di più. «Dovete
prendervi la responsabilità del momento storico. L’editoria soffre, la carta stampata non sarà
sicuramente il futuro. Se però non c’è gente che investe sulla carta, sulla ricerca, sulla cultura,
siamo destinati a essere un popolo di ignoranti. Il vostro è quasi un atto missionario».
Prende il telefono, chiama Gareth Pugh. «Se facciamo una foto deve essere grandiosa»
ci dice, e noi eccitati più di bambini al Luna Park ci mettiamo al lavoro. Spettacolare,
luccicante. Devota com’è alla moda, durante gli anni Novanta Anna Dello Russo vestiva
Yamamoto. Newton la fotografava seria e nera in un cortile milanese. Quando a cavallo del
millennio Anna vide «lo sbarluccichio di una ventata di pop, ho dato fiato alle trombe. Ho
adorato l’apertura al popolare, al glamour ostentato, al wild esasperato – anche al cattivo
gusto. Adoro gli estremi, penso che accostarli sia una prova d’intelligenza». Quando Anna
arriva, si sente. «So che la mia immagine pubblica passa attraverso una chiave pop, ma ho
anche un lato snob. La mancanza di professionalità mi manda in bestia –e sono una
soldatessa dell’editing.L’editing è un atto estremamente snob». Gli estremi compongono
Anna. «L’ho imparato dallo yoga, dalla commistione di ying e yang, la convivenza
degli opposti. Il corpo è un’altra entità, parla per te. La moda è la mia terapia, mi ha
costretto a ragionare su di me». Per Anna gli abiti sono uno scudo. «Ciò che indosso è il
mio parafulmine alla vita. Alle elementari notavano i miei look, tutta rosa o tutta gialla.
Prendevano in giro il vestito e lasciavano in pace me. ‘Io mi trucco perché la mia vita
non mi riconosca più e vada via’, cantava Renato Zero».
Anna è lucida in maniera feroce: «I look mi danno la possibilità di interpretare tanti personaggi e questo mi permette di allentare il controllo che esercito su di me. La gente si droga, io mi vesto. Io mi faccio il look e finalmente non assomiglio a me stessa, alle mie nevrosi, ai miei controlli. È l’alienazione dall’Ego che mi permette di vivere meglio, in modo positivo». Suona il telefono, è Giovanna Battaglia (ha cominciato con Anna all’UomoVogue). «Ne ho tirate su tante nella mia carriera. Ognuna ha fatto il suo percorso, la sua strada indipendente. Questo mi rende orgogliosa». Sono sempre tre le ragazze che la seguono, due fisse e una a rotazione. «Non ho mai dovuto cercare un’assistente – sono sempre arrivate da me in modo spontaneo. Si vede che negli anni ho seminato bene. Ho dedicato la mia vita al lavoro, non ho avuto figli. Ho loro». Sorride orgogliosa. Costantemente connessa e condivisa: «Se interessi a un quindicenne è come se non invecchiassi mai. Vorrei evitare di finire nella tomba col look. Bugia. Il look per la tomba in realtà è già pronto». Mi chiedo se in una vita così integralmente dedicata a un sogno – la moda, quasi un’ossessione – ce ne siano altri. «Ne ho talmente tanti che non so se riuscirò mai a esaurirli tutti. Vorrei aprire una scuola di Yoga e un parrucchiere, quella è sempre stata la mia prima e più grande passione. Mi piacerebbe tornare a lavorare con le mani. Vorrei anche fare la sfilata di Victoria’s Secret. Scrivilo questo che magari mi chiamano davvero».
source: lampoon.it